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Italy.jpg (930 byte) Aspettiamo le vostre poesie... Italy.jpg (930 byte)

 

 

 

 


 

FIDARSI E’ BENE, MA...

 

 

Se ne stava seduto in modo compito. Mangiava lentamente e con gusto. Di tanto in tanto si versava due dita di vino, sollevava il bicchiere, lo osservava, lo dondolava per qualche secondo, ed infine, lo portava alle labbra. Non era vecchio, era anziano. Di corporatura massiccia, con molti capelli, indossava una maglietta rossa sotto una giacca di ottimo taglio. Aveva uno sguardo profondo ;  scrutava l’ambiente concentrandosi su alcuni dettagli : la piega della tovaglia, lo spigolo della sedia, il portafiori d’ottone. Parlava con un tono a metà tra il didattico e l’imperativo. "Ora badi bene..." disse al cameriere "Mi porti un gelato al gusto di cioccolato... Aspetti qualche minuto prima di servirlo, però...".
Eravamo rimasti soli lui ed io nel locale, distanti uno dall’altro, due tavoli ; fuori pioveva a dirotto ed erano le tre del pomeriggio. Mi guardò, e con l’aria di chi sta per confidare un importante segreto, confessò : "si sposano bene il roast-beaf e il gelato al cioccolato". Fece una brevissima pausa, forse aspettava una mia reazione "Però è bene distanziarli di qualche minuto..." aggiunse quando s’accorse che questa non sarebbe arrivata... "Ah si?" domandai, trascinato, mio malgrado, nella conversazione. "Si...si" confermò convinto. Poi abbozzò un sorriso e atteggiando una certa modestia, proseguì: "Sa, per anni ho fatto il ristoratore... Io e mia moglie avevamo un albergo. Nel centro della città, lei si occupava delle camere e io della cucina e della sala...L’ho fatto per più di cinquant’anni..." Chinò il capo e con la mano iniziò ad accarezzare la tovaglia. Emise un sospiro...Mi sentii obbligato a chiedergli: "E ora non lo fa più?"
"No...quando è morta la mia Mariuccia... e non è tanto... ho venduto tutto e mi sono ritirato ."Estrasse dalla tasca il fazzoletto, candido, con le iniziali ricamate, e lo tenne a mezz’aria. "E’ meglio che non ne parli, altrimenti mi viene il magone..." concluse e si portò il fazzoletto agli occhi.
Lo osservavo sempre più incuriosito. Ormai mi aveva preso. "Mi dispiace..." dissi convinto.
"E’ la vita... Che ci vuol fare?. Ma ancora non mi sono abituato. Forse perché è mancata così all’improvviso."
Scosse il capo. "Tuttavia, ciò che più mi disturba è l’atteggiamento degli altri, dei parenti e soprattutto dei figli.". Alzò la mano quasi a voler fare giuramento. "Per carità, bravi ragazzi, anche troppo. Ne ho tre, tutti sposati. Lavorano sodo, non li sento per l’intera settimana, ma alla domenica, fanno a gara per invitarmi."
"E si lamenta? Sa quanti la invidiano..."
"Vede signore" continuò con un tono pacato..." Io non la conosco, però lei mi sembra una persona ragionevole e intelligente, forse mi potrà capire. Non è facile da spiegare, ma per loro è come se con mia moglie fossi morto anch’io, o meglio, l’uomo che ero. Adesso in me vedono solo un povero vecchio che va tenuto per mano. Io invece sono sempre lo stesso. Sto soffrendo, non lo nego, tuttavia non ho perso la mia identità.
Così quando loro mi invitano, e lo fanno con mille premure, rifiuto. Dico che ho un altro impegno...E per non smentirmi prendo la macchina e via...Vado a zonzo. Oggi ad esempio volevo fare il giro della Val D’Ossola, poi fermarmi a mangiare in un locale che conosco bene, dove ci sono persone che ho già incontrato altre volte. Invece, girando per le vallate, mi sono perso. E quando mi sono accorto d’essere ormai fuori strada, mi sono spinto fino qua, in questo ristorante che gode di ottima fama. "
Sorrisi. Non potevo dire che quell’uomo non avesse una spiccata personalità. E una sua logica, anche.
"Ora, - continuò - berrò il caffè e poi piano piano mi avvierò verso casa. Sono un po’ fuori mano, ma tempo ne ho."
Aveva finito di mangiare il gelato e con un cenno chiamò il cameriere.
Continuammo a parlare. Mi raccontò di quella che era stata la sua attività, dei trucchi, delle insidie e dei rischi. "L’occhio, l’occhio, mio caro signore, deve essere sempre attento, vigile. Senza darlo a vedere, s’intende. Riguardoso verso il cliente, severo con il personale. Altrimenti...la fregano..." E a rafforzare il concetto fece un eloquente gesto con la mano.
"Soprattutto il personale. Cosa vuole, in questo mestiere il personale va e viene, lei non ha il tempo di conoscerlo bene e di furbi, ce n’è tanti...eh sì...All’apparenza brave persone, ma quando le metti dietro il banco o vicino ad una cassa...allora te li raccomando...Mi creda, il proverbio non sbaglia - Fidarsi è bene, ma non fidarsi è meglio -. Se lo ricordi, se lo ricordi bene..."
Arrivò anche il caffè. Con scioltezza, ormai libero e alquanto allegro, si accese una sigaretta.
"Fumo molto poco - mi confidò - ma dopo un buon pasto ed una garbata conversazione, la sigaretta è ciò che ci vuole."
Chiese il conto.
Io ero al gelato, un fresco gelato al limone che lui stesso mi aveva consigliato.
Certo era un uomo particolare. Mi aveva detto di aver più di ottant’anni. Li portava bene. Soprattutto era lucido e attento. Mi colpiva la sua capacità di cambiare. In alcuni momenti, infatti, era profondo e pensoso, poi all’improvviso gli si accendeva un guizzo sbarazzino negli occhi, come quello di chi sta per farti uno scherzo.
Arrivò il cameriere e lasciò sul suo tavolo il piattino col conto.
Lui lo guardò e senza far cenni portò la mano alla tasca interna della giacca, quella di destra. Tastò un po’, poi spostò la mano dalla parte sinistra. Anche qui tastò due o tre volte, e mentre il suo viso andava assumendo un’espressione di disappunto, cercò velocemente prima nelle tasche esterne della giacca e poi in quelle dei pantaloni.
A quel punto mi accorsi che qualcosa non andava, sul suo volto il disappunto era diventato sgomento.
Mi guardò quasi impaurito ed esclamò :"Non ho il portafoglio"....Panico, scuse, paure...si accavallarono, si avvicendarono...
Mi guardò ancora e con lo sguardo mi chiese qualcosa. Tuttavia me lo chiese con distinzione, anzi sembrò che dicesse : "Se ci tiene le consento di aiutarmi".
Mi sentii obbligato a farlo. E lo feci discretamente.
Gli proposi di pagargli il conto, finse di rifiutare..."No, lasci stare... " mi disse. "Mi accorderò con il proprietario...anche se un po’ mi vergogno..."
Io insistetti ed alla fine accettò. Gli diedi una banconota da centomila lire, mentre lui prometteva, giurava che me li avrebbe spediti a casa al più presto.
Se ne andò.
Ero lì lì per andarmene anch’io. Avevo già pagato e stavo allacciandomi la giacca, quando il cameriere, che ballava intorno per sparecchiare, mi disse :
"Ha fregato anche lei ? Eh ?".
Non capii sul momento. Restai lì con le dita sul secondo bottone. Il cameriere, tranquillo forse anche un po’ divertito, continuò : "E’ noto nella zona. Avvicina i clienti, soprattutto quelli che come lei sono di passaggio, gli
racconta un mucchio di storie, poi al momento di pagare il conto dice di non avere il portafoglio e si fa dare dei soldi".
"Lei lo conosce, allora ?" Domandai a quel punto seccato.
"Non personalmente. Qui è la prima volta che viene. A me lo ha detto un amico che fa il cameriere a Domodossola". Allargò le braccia per consolarmi, e aggiunse : "Eppure dicono che stia bene..." .
Tornai a casa guidando lentamente. Mi rodevo dentro, mi rimproveravo per l’ingenuità con cui mi ero bevuta la storia, tanto più che me l’aveva detto.
- Fidarsi è bene, ma... Nello stesso tempo mi consolavo pensando che non ero il solo. "E’ stato bravo il vecchietto..." conclusi e decisi di non pensarci più.
Passò una settimana.
Ero sopra pensiero quando aprii la cassetta della posta. Lontano da me il ricordo dell’uomo e del suo raffinato imbroglio.
Dalla cassetta scivolò dignitosa una busta giallo paglierino su cui l’indirizzo e il nome erano scritti con una calligrafia elegante e ricercata.
Non aveva mittente.
"Di chi sarà ?" pensai. E per un attimo fui tentato di non aprirla temendo una delle tante catene che ti tormentano con previsioni di imminenti catastrofi.
Invece l’aprii.
All’interno un foglio, giallo paglierino come la busta, e un biglietto da centomila.
Guardai la banconota e lessi il biglietto :
"Gentile signore...nonostante la lezione, anche lei ci è cascato.
Glielo avevo detto di non fidarsi, se lo ricordi per il futuro. Comunque, poiché lei è una persona simpatica e a modo, ho deciso di restituirle il denaro".
Sorrisi, rasserenato. In fondo, nonostante tutto, era stato corretto e di parola, almeno con me.
Presi le centomila lire che erano nella busta e mi accinsi a metterle in tasca.
Ma...c’era qualcosa nella banconota, non mi convinceva...
La toccai, una volta, due volte, la guardai, la riguardai controluce...
Poi scossi la testa e la strappai. Era falsa, visibilmente falsa.

 

 

Rosa Romano Bettini WB01345_.gif (616 byte)RETURN

 


 

Il mattino ha l’oro in bocca

 

Il signor Gino adorava i cappelli : cappelli a falde larghe o a falde strette ; cappelli calati su un lato della nuca oppure rivolti in avanti ; di feltro o di paglia. Insomma, i cappelli erano la sua passione. Ne aveva per tutte le stagioni e di tutti i colori e li abbinava sempre in base all’abbigliamento : se era sportivo indossava la "paglietta" o la "scoppola" ; con i capi più eleganti, invece, metteva il "Borsalino". A parte questa piccola mania, per il resto, era un uomo straordinariamente ordinario. Puntualissimo alle otto ogni mattina andava al lavoro, alle 13,30 staccava per la pausa pranzo e alle 14,30 tornava per completare il turno che finiva alle 17,30. I suoi ritmi erano rituali e perfetti come se fossero scanditi da un pendolo. Aveva circa 60 anni, la testa calva il naso a patata e un perenne sorriso stampato sul viso. Era un ometto veramente simpatico, di quelli che non si fanno sconvolgere da nulla e che prendono la vita con una certa dose di calma. Tanti anni di lavoro presso una struttura statale gli avevano insegnato che correre ed affannarsi per dimostrare di essere meritevoli e capaci non serviva proprio a nulla. Se non si era appoggiati dalle persone "giuste" non si faceva strada in quell’ambiente. Purtroppo, il signor Gino non era mai stato un tipo intraprendente...per tale ragione, nonostante i sogni di gloria, si era adeguato quasi subito alla situazione. Aveva messo da parte ogni aspirazione e aveva svolto con "rituale indifferenza" le mansioni a cui era preposto come ragioniere. Così, dal momento che il lavoro non gli aveva dato la possibilità di realizzare le sue ambizioni, come tutti gli impiegati statali, si era concentrato sulla sua vita privata. Infatti, la nascita del figlio Gianluca era stata per il

signor Gino un vero e proprio dono della provvidenza. Su di lui aveva riposto speranze e aspirazioni, progetti ed ambizioni. Si era sacrificato e aveva risparmiato fino all’ultimo centesimo per consentirgli un’ottima istruzione. Ma quando Gianluca aveva cominciato a tagliarsi i capelli corti e dritti sulla nuca e a tingerli di uno strano colore giallo acceso ed a bucarsi le labbra e le estremità del sopracciglio con degli insoliti anellini, aveva capito che era stato tempo sprecato. Anche in questo caso non si era adirato, non aveva tentato di interferire prepotentemente nelle scelte del figlio. Non aveva fatto nulla per convincerlo che la strada scelta da un padre è sempre la migliore per il futuro di un figlio e che seguire tutte le mode dominanti non aiuta nessuno perché, per essere vincenti nella vita, non bisogna essere capaci, ma frequentare le persone giuste, vestirsi nella maniera giusta ed assumere il giusto comportamento. Quelli che come lui si vestivano in maniera ambigua, si mettevano orecchini al naso e si coloravano i capelli con strane tinte, si confinavano spontaneamente nel girone degli esclusi, nel girone di quelli che non avrebbero mai avuto delle opportunità nella vita. Anzi, per assurdo, era proprio il loro autoisolamento che permetteva a "quegli altri" di padroneggiare. No, per quanto il signor Gino fosse profondamente convinto di tutto ciò, non aveva detto nulla e si era limitato a gettarsi dietro alle spalle quell’ennesima delusione.

Così, delusione dopo delusione, la sua vita era scivolata via, liscia come l’olio. Certamente il suo carattere piuttosto mite lo aveva aiutato a non prendere di petto le avversità della vita. Non era un tipo tendenzialmente astioso e nemmeno scontroso. Non perdeva la calma facilmente e non covava rancore e metteva a proprio agio chiunque avesse a che fare con lui.

Certo l’ulcera che lo accompagnava da diversi anni gli aveva dato del filo da torcere, ma lui se ne era fatta una ragione e non si preoccupava più di tanto. Non si poteva volere tutto dalla vita: aveva una bella casa, una moglie che gli era devota, un figlio "strano", ma pur sempre figlio, un onesto lavoro ; pagava le tasse e rispettava la legge. Si, in fondo una piccola ulcera che poteva mai significare. Un giorno, però, un giorno apparentemente come tutti gli altri, mentre usciva dal portone della sua abitazione per recarsi al lavoro, accadde qualcosa che mise in discussione quel pilastro di stabilità che era stata la sua vita. Era una mattina di una calda e prematura estate, il sole era alto nel cielo e la città si apprestava a svolgere le sue quotidiane attività. Il sorriso beffardo e tracotante di un vigile urbano vestito di tutto punto e armato di libretto, penna e fischietto, piantato come un palo vicino alla sua modesta Fiat Uno, fu il primo contatto che il signor Gino ebbe quel giorno con la città appena ridestata dalla quiete notturna. Appena si trovò di fronte all’uomo in uniforme il nostro avvertì immediatamente un cattivo presagio, ma non gli diede retta e andò diritto verso la sua automobile, ignaro del fatto che quello sarebbe stato soltanto l’inizio di una terribile giornata, una giornata da dimenticare. Con il suo solito sorriso salutò il vigile urbano che invece di contraccambiare con altrettanta gentilezza ringhiò in tono minaccioso:

- Bene, bene….è lei il proprietario di questa autovettura?

- Si. – risposi timidamente.

- Mi dia il libretto e la patente – continuò il vigile tenendo gli occhi bassi.

- Certamente. Ma…scusi… - aggiunse con timore il pover’uomo – C’è qualcosa che non va?

- Non lo vede da solo che la sua auto è in divieto di sosta?

- rispose l’altro mentre con la penna indicava una striscia gialla che delimitava un’area di parcheggio riservata.

Confuso, il signor Gino guardò nella direzione dove era sicuro che fino al giorno prima non vi fosse stato nessun divieto e disse :

- Ma...ma...sono trent’anni che parcheggio la macchina in questo posto. Ci deve essere un errore. Sono sicuro che prima d’ora la sosta non era vietata. Questa notte...probabilmente...sono stati fatti dei lavori. Può vedere anche lei che la vernice è ancora fresca...- e si chinò a toccare l’asfalto per confermare quanto stava dicendo.

Senza prestare la minima attenzione alle argomentazioni del pover’uomo e con un sottile ghigno il vigile continuò :

- Concilia subito ?

Il signor Gino sentì una ondata di calore avvampargli il volto. E dire che nel corso della sua esistenza aveva resistito a provocazioni ben maggiori di quella senza mai perdere la pazienza. Eppure, in quel momento, per la prima volta nella sua vita, fu preso da un irrefrenabile desiderio di violenza. Avrebbe volentieri tirato il collo a quel grosso e tronfio gallinaccio così spavaldo solo perché protetto da una divisa, ma non fece nulla di tutto ciò. Rimase fermo, come un ebete, a guardare il vigile mettere la multa sul tergicristalli e andar via, senza riuscire a dire una sola parola. Qualche istante dopo, sentì una fitta lancinante trafiggergli la bocca dello stomaco. Cercò di non prestargli attenzione, fece un grosso respiro e riprese il suo cammino. Se è vero che il mattino ha l’oro in bocca, capì che quel giorno per lui non sarebbe stato così dorato. Per questo decise di non sfidare oltre il destino e si incamminò verso l’autobus .

La fermata era gremita di persone. Passò il primo "38", ma niente da fare; poi il secondo e il terzo.

Dopo mezz’ora di attesa, tra uno spintone e l’altro, riuscì a farsi spazio e a salire sulla quarta vettura. Obliterò il suo biglietto e si mise in un angolo cercando di assicurarsi agli appositi sostegni con quanta più forza aveva per resistere alla fiumana di gente che inondava ogni successiva fermata.

Dopo una decina di minuti salirono anche due uomini del servizio di controllo muniti di berretto e distintivo. Con un tono molto duro gli chiesero il biglietto, lui glielo porse e, immediatamente, il volto dei due divenne arcigno.

- Il biglietto non è timbrato - dissero, pensando di aver colto l’uomo in flagrante.

Ma di rimando questo rispose con un’esclamazione di stupore - No ! Non è possibile.

- Invece è proprio così - ribatterono i due porgendogli il biglietto affinché verificasse egli stesso. Il signor Gino glielo strappò quasi dalle mani e vide che sul cartoncino era rimasto impresso lo stampo delle lettere e dei numeri di serie che identificavano l’autovettura, ma che l’inchiostro non aveva fatto il suo dovere. Cercò di far notare ai due quel che probabilmente era accaduto e obiettò che comunque era possibile leggere la data e l’ora in cui era salito sull’autobus. Ma i due non vollero sentir ragioni.

- Centomila. Paga subito o spediamo la multa a casa? - conclusero senza indugio.

Per la seconda volta fu travolto da un istinto violento e irrefrenabile. Cosa stava accadendo quella mattina ? Perché il destino stava accanendosi proprio contro di lui ? Lui che non aveva mai commesso un’infrazione in tutta la sua vita...Lui...che non aveva mai barato con il fisco...Lui che aveva sempre rispettato le regole. Possibile che il buon Dio volesse metterlo alla prova ?

Sentì il sangue pulsargli nelle tempie e il sudore bagnargli la fronte. Avrebbe voluto urlargli in faccia la loro ottusità, ma riuscì ad emettere soltanto un timido grugnito mentre i

due, convinti di aver beccato l’ennesimo "portoghese", scesero soddisfatti dall’autobus lasciandolo sulla piattaforma affollata a parlare come un povero pazzo.

Più tardi, recuperata la calma, decise di abbandonare l’autobus e di proseguire a piedi per evitare altri spiacevoli incontri. Dopo un breve tratto entrò in un bar per bagnarsi l’ugola arsa dalla calura estiva e lenire quel dolore lancinante allo stomaco che sentiva farsi sempre più acuto. Bevve un tè molto zuccherato e si diresse verso la cassa per pagare la consumazione, ma, appena mise la mano nella tasca interna della giacca, si rese conto che il portafoglio non c’era più. Cercò meglio, rovistò in tutte le tasche del suo vestito, ma nulla da fare. Divenne paonazzo dalla vergogna e cercò di giustificarsi con la cassiera del bar che lo guardava sorridendo di sottecchi. Dopo qualche istante capì quel che era successo: mentre si trovava alle prese con i controllori qualche borseggiatore doveva aver approfittato della sua distrazione e gli aveva sottratto il portafoglio proprio sotto gli occhi dei due che, beffa del destino, trattavano lui come un criminale.

Quella tremenda consapevolezza fu fatale. Sentì le forze venirgli meno e cadde semisvenuto in terra. Il padrone del bar lo soccorse e cercò di tranquillizzarlo dicendogli che avrebbe potuto pagare il suo tè un altro giorno. Così, stonato come un vecchio pianoforte in cerca di un accordatore, riprese il suo cammino. Perse il resto della mattina al commissariato e in banca tra moduli e denuncie per ridurre al minimo il danno già subito con il furto. Arrivò in ufficio quando ormai era quasi l’ora di uscire e, dulcis in fundo, trovò ad attenderlo il direttore del servizio livido dalla collera. Profondamente provato dagli avvenimenti di quella breve ma terribile giornata, cercò di usare le poche forze di cui ancora disponeva per tentare di spiegare ciò che era accaduto, senza però ottenere

la comprensione del suo capo. Così, mentre questo sbraitava prese il suo cappello, chiuse la porta del suo ufficio e se ne andò.

La temperatura ormai aveva raggiunto i 35 gradi. La strada era arroventata dal sole e le folate di vento caldo che si levavano dall’asfalto rendevano l’aria irrespirabile. Le auto, attaccate le une alle altre, suonavano impazientemente i loro clacson. Il semaforo era guasto. Fiotti di pedoni smarriti cercavano di attraversare la strada. Il signor Gino confuso ed inebetito si accodò ad un gruppo di anziani che disperatamente cercavano di passare dall’altra parte della sponda, quando un vigile urbano che con un fischietto dava il via ai pedoni per farli passare, l’afferrò per un braccio e gli urlò nell’orecchio facendolo sobbalzare:

- Fermooo ! ! ! - Non vede che ormai è troppo tardi ?

- Ma gli altri sono andati...è solo questione di pochi passi - esclamò supplicante.

- Ho detto che è troppo tardi. Torni indietro e basta, altrimenti...le faccio la multa - replicò imperterrito il pizzardone.

Immediatamente il suo stomaco fu assalito da fitte lancinanti. Multa...Multa...Multa. Questa parola gli risuonò nella testa con la stessa frequenza di un disco incantato fino a provocargli l’ennesimo ed ultimo stress. Come dire...la classica goccia che fa traboccare il vaso. Chi conosceva quel timido e tranquillo ometto prima di quel momento non avrebbe potuto credere ai propri occhi nel vederlo ridotto in quello stato. Gli occhi gli si iniettarono di sangue, le vene che dal collo affluivano verso le tempie gli si gonfiarono a dismisura e le mani ed il corpo, in preda ad

un delirio che lui stesso ormai non era più in grado di controllare, cominciarono a fremere. Con un balzo da vero atleta saltò al collo del vigile e strinse, strinse, strinse, con

tutte le forze, fino a che questo non divenne livido e paonazzo per la mancanza di ossigeno. Alcuni passanti cercarono di sottrargli la preda: ma fu inutile. Tre uomini gli si gettarono addosso per costringerlo ad allentare la morsa con cui gli cingeva il collo, senza però sortire alcun effetto. La rabbia gli aveva donato una forza tale da superare qualsiasi impedimento. Le macchine suonavano all’impazzata. Una folla di curiosi fece capannello intorno ai due e si aprirono le scommesse:

- Cinquantamila che il vecchio lo fa secco. Ci stai ? - disse un passante - No io scommetto che lo arrestano prima - rispose un altro.

Nel mentre si sentirono le sirene delle polizia farsi sempre più vicine, ma ciò che il signor Gino riuscì a sentire, prima di cadere in terra privo di sensi, fu soltanto un suono assordante...Drinn ! ! Drinn ! ! ! Drinn ! ! !

Quando si svegliò si trovava nel letto della sua camera. La fronte madida di sudore ed il pigiama completamente fradicio, gli fecero capire che era stato vittima di un brutto sogno. Si guardò intorno, vide che sua moglie dormiva placidamente e che tutto era in perfetto ordine. Si affacciò alla finestra e constatò che la sua macchina era sempre allo stesso posto : per fortuna niente divieti...niente vigili urbani...l’unica cosa che non lo aveva abbandonato era quel terribile dolore allo stomaco. Tutto sommato, però, la cosa non gli dispiacque affatto.

 

Maria Grazia Adamo WB01345_.gif (616 byte)RETURN